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Padre Kizito, Nairobi 3 luglio 2020

Il giornale di stamattina diceva che ad oggi, dai primi di marzo, ci sono in 6,673 casi confermati, 2,889 guarigioni e 149 decessi. Gli esperti prevedono un drammatico peggioramento in agosto e settembre. Ma nell’ambiente in cui vivo, fra le persone che conosco, la percezione diffusa è che il pericolo sia passato e si dovrebbero riaprire le scuole, i ristoranti, e le altre istituzioni che sono state chiuse all’inizio della pandemia, sopratutto che finiscano le restrizioni sui viaggi interni. I viaggi all’estero via aerea sono il privilegio di pochi, e non sono un problema per i miei amici. Stiamo facendo fatica a mantenere Kivuli chiusa, la vita dall’esterno preme sul grande cancello blu.

Già due settimane fa Alex, un sedicenne di Tone la Maji, mi ha chiesto di essere circonciso. Mi sono consultato con gli operatori e la richiesta ci è parsa ragionevole, addirittura un bella idea per approfittare di queste vacanze forzate, visto che di solito la completa guarigione dalla circoncisione richiede dall’una alle tre settimane. Altri si sono aggregati, abbiamo ottenuto il consenso dei genitori, e mercoledì della scorsa settimana un gruppo di 14 ragazzi è stato circonciso dal nostro personale medico del Kivuli Dispensary.

La circoncisione nelle tradizioni di molti popoli africani – con elementi particolari molto diversi – segna il momento di passaggio dall’infanzia all’età adulta, e a fa parte di un periodo di iniziazione in cui solo alcuni anziani maestri di vita possono stare insieme agli iniziandi e li istruiscono sui comportamenti e sopratutto sui doveri che un uomo ha verso la comunità. Al termine dell’iniziazione c’è una festa comunitaria per l’accoglienza dei neo-adulti.

Nella vita tradizionale l’iniziazione era un rito di importanza difficile da sopravalutare, e creava coesione sociale, solidarietà, senso di comunità. In città è sopravvissuta solo la circoncisione, anche perché promossa in quasi tutta l’Africa nera dai governi, in base a studi fatti durante la precedente pandemia, quella di HIV- AIDS, che l’abbinavano ad una diminuita diffusione della malattia.

Fra i nostri ragazzi tutto è andato bene e naturalmente abbiamo cercato di dare un significato a questo momento, sottolineando l’importanza dei valori della tradizione e facendo con loro lettura del breve racconto delle circoncisione di Gesù e anche degli Atti degli Apostoli dove si riporta la decisione degli apostoli che la circoncisione può essere eseguita ma non è obbligatoria. Abbiamo soprattutto insistito sui doveri di un cristiano adulto.

Non siamo i primi a scoprire che la Cresima ha una affinità particolare con i riti tradizionali di passaggio che erano comuni, con circoncisione o senza, a tutte le etnie africane, ma, da quel che so, i tentativi di inculturazione in questa direzione hanno incontrato profonde resistenze. Come tutto il processo di inculturazione che ironicamente – o tristemente? – è stato bloccato dopo la celebrazione del primo Sinodo Africano nel 1994. Si sono fatti più progressi o per lo meno più tentativi, nel “cristianizzare” i riti, molto meno praticati, che venivano fatti per le ragazze a comportavano anche le inaccettabili mutilazioni genitali.

Oggi, conclusione seconda settimana di corso di catering, H*** un quasi trentenne che è arrivato a Nairobi otto anni fa dal villaggio nell’assurda speranza di trovare lavoro e invece è finito quasi subito in strada, annuncia a tutti: “Non sono mai rientrato al villaggio perché mi vergognavo. Partendo avevo promesso a mia nonna che da Nairobi le avrei inviato dei soldi per essere tranquilla nella sua vecchiaia. Adesso sono felice, mi impegno al massimo e so che presto la potrò aiutare”. La forza dell’amore delle nonne! H***, come la maggioranza di questi ragazzi appartiene alla generazione che è stata allevata dalle nonne perché i genitori erano morti per l’AIDS.

La foto è un attimo rubato durante la Messa di domenica scorsa. Come d’abitudine tutti i ragazzi di Tone la Maji erano curvi, il volto fra le mani, nel momento della preghiera dei fedeli, con tanti interventi di preghiere anche molto lunghe…. interminabili. Ad un certo punto alzo la testa, mi guardo in giro, e vedo il piccolo Kevin, che seminascosto dalla schiena del vicino mi lancia uno sguardo d’intesa. Non ho resistito, ho preso il telefonino che era in modalità silenziata ed ho scattato questa foto. Chiedo pietà ai liturgisti. Spero nessuno mi denunci alla santa Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Ma se la forza della preghiera si misura con l’amore lo sguardo di Kevin mi rassicura. Non sarò condannato.

Padre Kizito, Nairobi 26 Giugno 2020


Oggi un gruppo di tredici ragazzi maggiorenni del gruppo riscattato della strada in situazione di emergenza ha completato la prima settimana di corso pratico di ristorazione, organizzato da Diakonia Institute per dieci settimane. Molto lavoro in cucina, servizio in sala e nozioni di management, tutto a Shalom House e Baraza Café. Come gestire un piccolo ristorante – o eating point – e quali sono i permessi da ottenere e le tasse da pagare.

Per necessità logistiche sono ospitati a Kivuli. Ogni mattina fanno una camminata di 30/40 minuti fino a Shalom, e alle 9 iniziano a lavorare, in gruppi, al forno o in cucina. Parte della lezione è preparare il loro pasto, e aiutare a servire al tavolo gli eventuali clienti, pochi in questi giorni. Si sono subito appassionati. Oggi mi hanno voluto servire il pasto preparato da loro, un hot dog con riso pilau.

Oggi S***, che sta ancora imparando ad usare forchetta e coltello, a fine pasto nel nostro immacolato – se cade una briciola fanno il turno a pulire – ma modesto Baraza Café guarda stupefatto il suo piatto vuoto, poi mi dice, “Grazie padre, è la prima volta in vita che mangio in un ristorante. Finora li avevo visti solo in televisione”. Quale televisione? Quelle che i negozianti espongono accese in vetrina o sulla strada per attirare i clienti. I vestiti sporchi, il sacco con i rifiuti di metallo o plastica che poi andranno a vendere, i bambini di strada che guardano queste televisioni sono essi stessi uno spettacolo. Assorbono ogni dettaglio delle telenovelas che vanno tanto di moda, sognando un mondo fasullo che non sarà mai il loro. Per fortuna.

La vita che loro portano è molto più bella e genuina. La loro presenza ha fatto rivivere Kivuli, temporaneamente privato della presenza dei bambini. Le scatenate partite di pallacanestro sullo sgangherato campetto, i capannelli che parlano di calcio, i fanatici di reggae che in nel salone ballano senza sosta intono ad un computer che ripete all’infinito Buffalo Soldier, mentre i due di turno in cucina di danno da fare a praticare l’arte imparata il mattino, perché a tavola non ci saranno solo loro tredici, ma anche i tre ragazzi che ancora vivono a Kivuli, Peter con il suo eterno problema alla gamba, e stasera anche sette ragazzi Sud Sudanesi ed Evelyn, la responsabile di Kivuli.

Tutto intorno al grande tavolo nel locale che a Kivuli è conosciuto come “Italian Restaurant”. Dileggi e risate e non finire ricordando gli impacci e gli errori di ognuno durante la pratica in cucina, lo stupore del cliente che si vede attorniato da sei camerieri, il rimprovero del capocuoco/istruttore Kasanga che ha sorpreso uno di loro che si si era fatto una fetta di pane e marmellata… Poi si alza J*** al quale da quando è arrivato non ho sentito dire più di 10 parole, con un cenno chiede il silenzio e recita una preghiera in inglese impeccabile. Applauso generale, J*** si guarda in giro e dice in un inglese non più perfetto perché improvvisato qualcosa tipo “Io chiedo scusa perché qui siete tutti troppo miei amici”. Altre risate, e M*** lo corregge “Non dovevi dire chiedo scusa, ma vi ringrazio”. J*** accetta la correzione con un sorriso, e non si azzarda a dire altro ma con un cenno invita ad incominciare il pasto. Spaghetti aglio olio peperoncino con contorno di cavoli stufati. Cala il silenzio. Il cibo lo si mangia con rispetto, quasi con devozione.

Ma cosa c’entra organizzare un corso di cucina con fare il missionario? Forse non c’entra niente con “fare il missionario” ma c’entra molto con l’”essere missionario”. E se non lo capisci io non posso spiegartelo, perché non lo capiresti mai, anche se te lo spiegasse un grande biblista. Ma ci provo. Le parole possono spiegare il Vangelo e approfondire la fede di chi già crede, solo eccezionalmente lo comunicano. Essere missionario è creare fraternità. Solo lo stare insieme, il vivere fianco a fianco, il condividere, l’amore vissuto possono comunicare il Vangelo. Questo è il linguaggio che tutti capiscono e che può comunicare la Vita.

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Padre Kizito, Nairobi – 21 giugno 2020

L'immagine può contenere: 2 persone, primo piano e spazio all'aperto

 

A ieri le statistiche ci dicono che in Kenya c’erano 4,478 casi confermati di Covid-19, 1,586 guariti e 121 decessi. Nonostante che l’avanzata del coronavirus sia lenta il governo ha scelto di muoversi ancora con prudenza. Il ministero dell’educazione ha fatto sapere che le scuole – da primarie a università – potrebbero riaprire in settembre, se ma solo se ci saranno segnali che i contagi sono in diminuzione, altrimenti tutto potrebbe slittare più avanti, a gennaio. Considerando che l’anno accademico per la scuola primaria e secondaria va da gennaio a novembre e che quest’anno tutte le scuole hanno chiuso ai primi di marzo, significa che tutti gli studenti perderanno un anno scolastico. In Zambia, dove vige lo stesso anno accademico e l’evolversi della pandemia è stato simile, hanno invece già riaperto le scuole per gli studenti che dovranno sostenere gli esami a novembre.

La scuola è anche una protezione per bambini e adolescenti che a casa vivono in condizioni difficili, in quartieri sovraffollati e famiglie numerose che coabitano in una stanza. L’altro ieri i mass media hanno divulgato cifre allarmanti, anzi spaventose, circa l’aumento di stupri, incesti e gravidanze che coinvolgono minorenni, il tutto attribuito alle condizioni createsi in conseguenze del coprifuoco.

La corruzione continua senza sosta, la lista degli scandali per la sparizione di soldi arrivati da istituzioni internazionali per combattere la pandemia e spariti nelle tasche dei funzionari è lunghissima. Tony Idris, rifugiato sudanese che vive a Kibera da ormai 15 anni, mi dice: “Ogni tanto dicono che un capetto di partito – governo o opposizione, sono tutti al potere – è stato ricoverato d’urgenza. Ma tutto è in funzione di mantenere la tensione, In realtà qual funzionario è in vacanza a Mombasa, magari proprio coi soldi che ha rubato dalla cassa per il coronavirus. Per loro è un affare”. E qualche ragione indubbiamente ce l’ha.

Siamo in una società in cui il Covid-19 ha aumentato tensione e violenza ed ha fatto emergere gli aspetti peggiori. Anche le denunce contro i poliziotti sono sempre più frequenti, e fortunatamente l’onnipresenza degli smartphone, permette, sul modello americano, di accompagnare queste denunce con prove incontrovertibili. La scorsa settimana ha fatto scalpore il caso di una donna che, accusata di aver rubato, è stata presa, legata ad una motocicletta e trascinata a terra per decine di metri e poi ricoverata in condizioni disperate. Da un poliziotto, che è stato fermato dai passanti, e ripreso col cellulare.

A volte, dopo aver dato un’occhiata al giornale del mattino, ci si potrebbe scoraggiare. Poi alzo gli occhi dalle notizie del giornale, mi guardo intorno, e mi ritrovo con tante persone come me, che a volte fanno fatica a superare il male, però cercano di vivere la loro giornata con rispetto verso gli altri, amore per la famiglia e gli amici, gioia per il tempo condiviso. Persone che ogni giorno si rinnovano e crescono nel bene che hanno seminato ieri. Che nonostante tutto guardano agli altri con un sorriso che viene dal cuore.

Padre Kizito, Nairobi – 14 giugno 2020

 

Non vorremmo più vedere bambini macilenti mendicare per le strade di Nairobi. Il rischio è che se ce ne siamo presi cura di cento, fra poche settimane quando la tensione per il timore del covid-19 si allenterà scopriremo che nelle stesse “basi” ne sono arrivati altri duecento. In questi tempi in cui la povertà cresce, i bambini filtrano della periferie povere verso il centro città, impossibile fermarli. Già ci sono i primi segnali. L’altro ieri la polizia di Kasarani ci ha chiamati per andare a prendere in consegna tre ragazzi quindicenni, nuovi alla vita di strada. Sono arrivati a Kerarapon impauriti e tremanti, con ancora addosso i vestii con cui erano scappati di casa 15 giorni fa. Perché? In casa non c’è da mangiare. Tutti di famiglie molto modeste, però fino a marzo frequentavano regolarmente la scuola. Poi le conseguenza economiche delle misure di contenimento del Covid-19 hanno fatto perdere lavoro ai genitori e senza alcune forma di sicurezza sociale è stata una discesa precipitosa vero la povertà e la fame.

In Kenya ci sono 46,639 persone di strada, secondo il primo censimento delle famiglie di strada, presentato alla stampa lo scorso mercoledì, che però fa una fotografia che risale a quasi due anni fa. La presenza più alta è a Nairobi, con 15,337, seguita da Mombasa con 7,529 e Kisumu con 2,746. Oltre il 75%, sia per i maschi che per le femmine, hanno frequantato alcune classi del ciclo primario, e il 14% ha frequentato il ciclo secondario. I “push factors” (cioè le motivazioni che le ha spinte in strada) sono stati, in ordine, la mancanza di cibo in casa, la non accessibilità ai servizi sociali, l’ostilità generale della società verso i poveri. I “pull factors” (le attrazioni) sono tutti parte del sogno di trovare una vita migliore in città. Sono cifre attendibili, come non ce ne sono mai state, ma da leggersi tendo presente che sono solo il numero delle persone che non hanno assolutamente più una casa di riferimento. A Nairobi i bambini che vivono in strada durante il giorno e rientrano a casa la sera, quindi “borderline”, sempre a rischio di finire in strada permanentemente, sono molti ma molti di più.

In questi giorni con il coprifuoco allentato (dalla scorsa domenica è dalle 21 alle 4) abbiamo più possibilità di muoverci e abbiamo incominciato a rintracciare le famiglie dei bambini che ci sono stati affidati. Prima quelli che provengono dai quartieri della città, poi quando si riapriranno i confini potremo andare a visitare le famiglie dei bambini provenienti da più lontano. I nostri operatori hanno le storie più diverse quando tornano da queste visite il cui risultato è sempre imprevedibile. Dalla vicina di casa che quando vede un bambino si mette a gridare “ma è tornato dai morti” e corre a chiamare la mamma che impazzisca di gioa riabbracciando il figlio che credeva ormai perso per sempre, al papà che non lascia entrare il figlio nella baracca spiegando a Besh che “è la quarta o quinta volta che ce lo riportano dopo che è scappato di casa portandosi via i soldi che la mamma si guadagna ogni giorno al mercato. Non lo voglio più vedere, Tenetevelo”.

Cominciamo a conoscere meglio anche i ragazzi più grandi che sono con noi ormai da due mesi. Dalle statistiche emergono volti di persone, ciascuna con i suoi problemi, i suoi sogni, la sua voglia di ripartire. Fra di loro un gruppetto che già aveva nozioni di saldatura (nelle foto Jousha e Daniel) e si è impegnato a riparare i letti a castello e le sedie in ferro delle nostre diverse case e scuole. Una decina di letti e quasi cento sedie sono state già rimesse a nuovo. “Finalmente lavoro, il sogno della mia vita” dice Daniel a tutti, mostrando orgogliosamente la fila di sedie ancora fresche di vernice.

Lo speciale TG! Che vi avevo segnalato è andato in onda la sera di domenica scorsa. Chi volesse lo può vedere su RaiPlay, al link qui sotto. Il reportage dal Kenya parte da 49′ 50″ e si vedono i nostri ragazzi a partire da 53′ 05”

Link dello Speciale del TG1
http://www.tg1.rai.it/dl/tg1/2010/rubriche/ContentItem-9b79c397-b248-4c03-a297-68b4b666e0a5.html

06/2020: Compassione per il mondo – Il Video del Papa

 

 

Molte persone soffrono nel mondo, non solo per la pandemia che stiamo vivendo. Come ha detto Papa Francesco il mese scorso, ci sono anche altre pandemie, come “la pandemia delle guerre, della fame e tante altre” (14/05/2020). Cosa possiamo fare? Come non cadere nell’indifferenza? Il Papa ci mostra il cammino: la compassione. È l’aiuto migliore che possiamo offrire a queste persone, con la nostra preghiera e la nostra vita, avvicinandole al Cuore di Gesù perché Egli possa trasformare la loro vita.

“Molte persone soffrono per le gravi difficoltà che patiscono. Possiamo aiutarle accompagnandole lungo un cammino pieno di compassione che trasforma la vita delle persone e le avvicina al Cuore di Cristo, che accoglie tutti noi nella rivoluzione della tenerezza. Preghiamo affinché coloro che soffrono trovino percorsi di vita, lasciandosi toccare dal Cuore di Gesù”. Il Video del Papa diffonde ogni mese le intenzioni di preghiera del Santo Padre per le sfide dell’umanità e della missione della Chiesa.

Padre Kizito, Nairobi – 3 Giugno 2020

Corona ed altri virus in Kenya

Ad oggi ci sono 2,093 casi confermati di Covid.19 e 71 decessi. D’alto lato, secondo quanto afferma l’IPOA (autorità indipendente di controllo della polizia) ci sono stati 32 incidenti e sono state uccise 15 persone dalla polizia in interventi direttamente collegati all’imposizione del coprifuoco. Ottantasette denunce contro la polizia sono state segnalate dalla fine di marzo. L’ultima morte è stata un senzatetto nello slum di Mathare che è stato ucciso lunedì per presunta violazione del coprifuoco. Anche Yassin Hussein Moyo, 13 anni, è stato ucciso dalla polizia mentre era sul balcone di casa dopo l’inizio del coprifuoco. Il direttore della pubblica accusa Noordin Haji ha approvato l’arresto dell’ufficiale che ha ucciso Yassin. Centinaia di manifestanti di Mathare hanno protestato martedì protestando contro questi “incidenti”. Human Rights Watch sostiene che la polizia fa irruzione nelle case e nei negozi e estorce denaro.

Non c’è da meravigliarsi quindi se il caso di George Floyd abbia avuto una risonanza particolare. C’è la dimensione razzismo, che non è estranea a nessuna persona di pelle scura che vive su questo pianeta. C’è anche l’esperienza diretta e quotidiana per tutti in Kenya di una Polizia che con la costituzione del 2010 ha cambiato nome da Police Force a Police Service, ma sempre profondamente corrotta e prone alla violenza rimane. Gli “incidenti” capitano sempre a danno dei poveri.

Il razzismo è l’esperienza fondante l’identità di tutte le persone di pelle nera, in qualunque nazione e continente vivano. Si può dire che è questa esperienza negativa che crea un senso di solidarietà fra le persone di origine africana che va al di là di ogni confine nazionale, è più importante di ogni altra catalogazione. In America un cristiano nero, e un musulmano nero, sono per prima cosa neri.

In tempi lontani, ho speso quasi l’intero anno 1976 in una parrocchia a Watts, allora il getto nero di Los Angeles conosciuto in tutto il mondo per la violenza, soprattutto quella dei poliziotti, e studiavo quella che allora si chiamava Black Theology. Ho conosciuto e intervistato una delle più famose (allora) delle Pantere Nere. Oggi ho ritrovato in internet una citazione di James H. Cone, il fondatore della Black Theology che pure avevo cercato di incontrare personalmente, senza successo. “In the “lynching era,” between 1880 to 1940, white Christians lynched nearly five thousand black men and women in a manner with obvious echoes of the Roman crucifixion of Jesus. Yet these “Christians” did not see the irony or contradiction in their actions.” (James H. Cone, The Cross and the Lynching Tree). Cioè “Nell’era dei linciaggi”, tra il 1880 e il 1940, i cristiani bianchi linciarono quasi cinquemila uomini e donne neri in un modo che evidentemente echeggia la crocifissione di Gesù fatta dai romani. Eppure, questi “cristiani” non hanno visto l’ironia o la contraddizione nelle loro azioni “.

Sembra che le cose non siano cambiate molto da allora. Forse in alcuni paesi sono peggiorate.

Padre Kizito, Nairobi – 26 Maggio 2020

Il numero dei contagi cresce, ma solo perché si fanno più tamponi. Il numero dei morti resta basso, in tutto 52. Il Presidente in un discorso alla nazione lo scorso sabato, mentre molti prevedeva l’annuncio di ulteriori restrizioni di movimenti – ha invece dato segnali in senso opposto, facendo sperare che il 6 giugno, quando finirà l’attuale periodo di limitazioni, ci si potrà per lo meno muovere liberamente su tutto il territorio nazionale. Ci aspettiamo presto anche l’annuncio di una data per la riapertura delle scuole, pur mantenendo le misure ormai standard sul distanziamento fisico e l’uso delle mascherine in tutti i luoghi pubblici. Il Presidente ha invece focalizzato il suo discorso sulle misure da prendere per il rilancio dell’economia. Le previsioni catastrofiche che che in maggio avremmo dovuto raccogliere cadaveri nelle strade delle baraccopoli sono scongiurate. O solo rimandate a settembre, come dicono gli allarmisti?

I nostri nuovi ospiti continua il loro cammino, e adagio adagio emergono le storie personali e nuove dinamiche.

M*** viene da un villaggio vicino al confine con la Somalia. Ha 25 anni, ed ha osservato rigorosamente il Ramadan. Dice che suo padre, un ricco commerciante della zona, voleva che andasse in Somalia a combattere a fianco del gruppo terroristico Al Shabaab, forse per ingraziarselo, vista l’influenza che questo gruppo ha nella zona, anche sulle attività economiche. M*** non voleva, perché alcuni suo fratelli c’erano già andati e non li aveva visti ritornare, e la madre, terza moglie, ha difeso la sua scelta. E’ fuggito, ma il padre ha giurato di ucciderlo per il suo tradimento e lo ha fatto inseguire da sicari fino a Sololo, dove è stato ferito gravemente. La ferita è impressionante. Da Sololo è riuscito ad arrivare a Nairobi e perdersi prima per le strade di Eastleigh, il quartiere chiamato “piccola Mogadiscio” e poi del centro città. Ha una minuscola radiolina, sempre sintonizzata su una stazione che parla somalo, e gli altri ragazzi dicono che mente sul suo passato, che ha fatto almeno qualche anno con Al Shabaab, e che ascolta sempre discorsi incitanti al terrorismo. Però nessuno capisce il somalo!

P*** ha 21 anni, viene da un villaggio vicino al lago Vittoria e i suoi genitori frequentavano una chiesa evangelica. Quando si sono separati, lui è stato affidato ad una zia materna che lo obbligava ad elemosinare. Non è mai andato a scuola, Undici anni fa è scappato ed è arrivato a Nairobi con messi di fortuna e da allora ha vissuto in strada. Si è mantenuto in perfetta forma fisica perché sogna di diventare un grande maratoneta e questa passione lo ha tenuto lontano dalla droga e gli ha dato una ragione di vita. A Nairobi non è mai entrato in una chiesa, ma è ferocemente cristiano. Intransigente, fondamentalista, anche se le sue convinzioni mancano di ogni fondamento.

Domenica scorsa in occasione di una festicciola per celebrare la fine del Ramadan, M*** e P*** hanno avuto un diverbio su una questione teologia (di così alto livello che io non l’ho capita, ma questo è normale) e sono venuti alle mani, e poi in una delle mani è apparso un coltello. Sono intervenuti gli altri, li hanno separati, seduta stante c’è stata un’assemblea comunitaria e un corale rimprovero. Dopo pochi minuti, mentre facevo una piccola ispezione sull’igiene della cucina, mi si sono inginocchiati davanti, M*** piangente, chiedendo che li perdonassi in nome di Dio.

Il documento sulla Fratellanza Umana firmato poco più di una anno fa da papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar traccia la strada che dovremmo perire, né di coltello, né di armi ben peggiori.
In questo nostro piccolo di mondo di Koinonia, che vorrebbe essere evangelico, sentiamo tutto il peso di una storia di guerre e di odio che si è accumulato nei secoli e che condiziona la vita delle persone senza che queste abbiamo veramente una conoscenza della storia e della religione che professano. Hanno sì fede in Dio, ma sono condizionati da una “religione” mal capita che è diventata identità tribale. Ce ne sono esempi anche in Italia, mi pare. Come evidenziate dai commenti che ho sentito al ritorno di Silvia Romano.

Il fondamentalismo religioso – che ha molte caratteristiche in comune con il razzismo, un po’ il fratello laico – è divisione, odio, violenza. Entrambi notte della ragione e dell’umanità. Entrambi alieni al Vangelo di Gesù.

Intanto i nostri bambini più piccoli a Tone la Maji, appartenenti ad ogni tribù e religione che esistono sotto il cielo del Kenya, immemori di tutte le divisioni dei grandi continuano a pregare insieme.

N.B

Qui di seguito alleghiamo, inoltre, il link al post di Facebook dove potrete vedere un video con cui P. Kizito ha accompagnato il suo aggiornamento.

27 Maggio. Coronavirus in Kenya (21)Il numero dei contagi cresce, ma solo perché si fanno più tamponi. Il numero dei…

Pubblicato da Renato Kizito Sesana su Mercoledì 27 maggio 2020

Padre Kizito, Nairobi – 21 Maggio 2020


In questi giorni balzo avanti del numero di persone confermate contagiate, 1,029, ma grazie a Dio il numero dei morti cresce molto lentamente, sono ancora “solo” 50. Dopo 9 settimane dal primo caso è un risultato incoraggiante. Dovuto alle iniziali rigide regole date dal governo? Ormai difficile crederlo, anche perché l’osservanza delle regole si è molto allentata. In numerose situazioni, per esempio negli onnipresenti mercati all’aperto, il distanziamento fisico non è praticato. L’altro giorno vedo un insegnante di Meru, a oltre 100 km da Nairobi. “Ma sei rimasto bloccato a Nairobi quando hanno chiuso i confini della città?” Mi guarda e ride “Non conosci la nostra polizia? Con trecento scellini (meno di 3 euro) vai dove vuoi. Ma a te mzungu ne chiederebbero almeno il doppio”. Se il virus si è fermato è certo stato arrestato dalla polizia… L’ordine presidenziale di sabato scorso che ha prorogato il coprifuoco non ha causato molte reazioni, tanto ormai vari negozietti e “watering holes” (punti di abbeveraggio per gli animali nel linguaggio dei safari, bar e birrerie nello slang ) chiudono rigorosamente alle 19, per riaprire alle 21. Mi dicono che fra i clienti non mancano poliziotti, che spendono il ricavato di una dura giornata di piccole estorsioni.

Noi invece continuiamo il nostro piccolo lavoro di riscatto delle perosne. Oggi è arrivata l’ultima manciata di ragazzi presi dalla strada. Li guardavo mentre familiarizzavano con Fred Mswati, Duncan Besh, Harrison Anjere, Salmin Said, David Mubita, che erano bambini, anche piccoli, quando li ho presi dalla strada 15 o 20 anni fa. Loro si sono incamminati da anni su una strada che li ha portati ad essere giovani uomini maturi e responsabili delle proprie scelte. Gli altri sono all’inizio di una lungo cammino. Riusciranno a superare le mille difficoltà della vità, gli ostacoli creti da una società che non ècentrata sulle persone, ma sul profitto, e che sia un profitto facile. Questo è diventato il mio “lavoro”. Educare al rispetto di se stessi, per crescere nel rispetto degli altri, per arrivare a Dio. Perdersi nel Suo amore.

C’è Geoffrey che mi fa sperare. Ho scoperto che si sta dedicando a Peter, che ha subito una complicata operazione alle gamba in Italia più di due anni fa, ed è tornato a soffrire. Geoffrey ha 19 anni, era studente alla Domus Marie “ma adesso che la scuola è chiusa mi piace stare vicino a Peter, preparagli i pasti. Cosi sono più contento”.

Anni fa un amico mi regalò un libretto, una poetica, bellissima storia breve di Jean Giono “L’uomo che piantava gli alberi” dedicandomelo “All’uomo che trapianta i bambini”. Un complimento ogni tanto fa piacere, specialmente se è esagerato, infatti me lo ricordo a distanza di parecchi anni. I vari Besh, Geoffrey, Harry ecc. sono diventati a loro volta semplici manovali, giardinieri dell’umano. Sono loro la speranza per il futuro.

Padre Kizito, Nairobi – 16 Maggio 2020

Stamattina fra le cinque e le sei, dopo una notte di pioggia. In strada. In rifugi di fortuna. Adolescenti usa e getta, stracci, scarti di una società che li ha lasciati in preda al virus e non solo. Poi in pullman verso Ndugu Mdogo. Non hanno niente, ma il cuore è una miniera di risorse da esplorare. Grazie a Jack, Fred, Bernard che col loro impegno riescono a farci sentire ancora umani e cristiani. E grazie agli amici che ci sostengono.

Padre Kizito, Nairobi – 12 Maggio 2020

Oggi in Kenya si registrano 32 morti dall’inizio della pandemia da Covid-19. Inizio che ha quasi coinciso con le prime piogge di una lunga e violenta stagione che ha già causato inondazioni, frane, crolli con oltre 200 morti e 230,000 sfollati. Centinaia di pescatori che abitavano su isole nel Lago Vittoria, secondo al mondo come superficie – sono stati evacuati con le loro famiglie perché l’alzarsi del livello delle acque le sta sommergendo. A Mwewa, distretto di produzione agricola, oltre 3,200 ettari di riso ormai pronto al raccolto sono stati persi, sott’acqua. In contrasto, lo scorso anno era iniziato con una siccità che nel Nord-Est del paese aveva causato la morte di decine di migliaia di capi di bestiame e portato 3,5 milioni di persone sull’orlo della fame. Oggi, la stessa area – che comprende anche una vasta parte di Etiopia e Sud Sudan – sta subendo un’invasione di locuste, la peggiore negli ultimi 70 anni, e ancora non si sa come si evolverà. Nonostante tentativi di controllo con aerei che irrorano insetticidi sugli sciami, sembra addirittura che in questi giorni ci sia una pausa solo perché stanno deponendo le uova .

Questo breve elenco di fatti potrebbe iniziare a spiegare perché il Covid-19 non fa poi cosi tanta paura in Kenya, e generalmente in Africa. Qui i disastri – naturali o causati dall’insipienza e dall’avidità umana – si susseguono senza sosta. Aggravati dallo sconsiderato, criminoso sfruttamento delle risorse naturali che le compagnie internazionali hanno accelerato negli ultimi decenni. Per non dire dallo sfruttamento delle persone. Non c’è quindi da meravigliarsi se “solo” 32 mori in due mesi non suscitano tanto allarme, e la gente,nonostante il coprifuoco e tante altre restrizioni, cerca di continuare la vita normale, anche rischiando e aggirando le disposizioni governative.

Come fanno gli africani a sopportare il susseguirsi di tante disgrazie. Fatalismo? Le generalizzazioni sono sempre pericolose ma se fatalismo significa abbandonarsi al destino, subendolo senza reagire, credo che sia un atteggiamento alieno all’animo umano in ogni parte del mondo e in ogni cultura. Qui in Africa in modo particolare. Bisognerebbe essere ciechi, o accecati dai pregiudizi, per non vedere la grande voglia di impegnarsi per la vita.
In questi giorni lo vedo nei ragazzi più grandi che abbiamo riscattato dalla strada due settimane fa. I primi giorni sono stati facili, ma poi sono arrivate le crisi di astinenza, le crisi di autostima, sono ritornati gli incubi vissuti sulla strada in condizioni quasi subumane. Eppure finora abbiamo visto che sono capaci di reagire, e in loro si rimettere in moto tutto l’amore per la vita che hanno dentro.

E la stessa forza che ogni mattina fa alzare del letto, o dalla stuoia, o dalla coperta stesa sul pavimento le migliaia e migliaia di persone che alle 5:01 del mattino, appena finisce il coprifuoco, sono in strada per andare a lavorare, o a cercare lavoro occasionale, per poter dar da mangiare ai figli. Stamattina a quell’ora ero anch’io in strada, ma in auto, e nella fila di persone in cammino verso la più vicina stazione di matatu, ho riconosciuto la sagoma corpulenta di Eddy. Mi son fermato, gli ho chiesto se voleva stringersi con gli altri sul sedile posteriore, e nel tragitto mi ha raccontato che andava al mattatoio per cercare carne a buon prezzo da cuocere e rivendere in una bancarella gestita dalla moglie. Eddy è laureato in marketing,ha figli già grandi, e fino a sei settimane fa dirigeva il magazine interno di una grossa compagnia.

Una forza che nasce anche dalla fede. Dio è sempre presente. Dio è sempre l’autore del bene, anche quando il male sembra prevalere. La preghiera è sempre parte della vita quotidiana. Eddy dice: “In casa preghiamo il cardinale Otunga (vescovo di Nairobi dal 1971 al 1997 del quale è in corso la causa di beatificazione) che interceda per noi”. Una fede troppo ingenua, superstiziosa, medioevale, come direbbero tanti “illuminati” europei?

A proposito di fede. In questi giorni di Ramadan, Salmin, lo studente musulmano che da qualche mese fa da mio assistente e autista, ne sta rigorosamente seguendo le prescrizioni. Lo conosco dal 2005, quand’era un bimbo di 7 anni, perché la sua famiglia viveva non lontana dal nostro centro di prima accoglienza Ndugu Mdogo, a Kibera. Ieri gli ho raccontato quanto avevo letto online su Silvia Romano.

Del caso di Silvia/Aisha la stampa keniana aveva riportato poco, e ieri la sua liberazione ha meritato solo un articoletto veloce. In passato, e anche in questi giorni, sono stato sollecitato a dire il mio parere. Mi sono sempre rifiutato prima perché non conoscevo la onlus che l’ha mandata a Chakama e le vere circostanze del rapimento, e poi temevo che fosse successo il peggio. Adesso non ne parlo perché continuo a non conoscere bene i fatti e penso che le vicenda sia cosi complessa che per rispetto a Silvia e la famiglia la cosa migliore sia di fare silenzio. Anzi sarebbe ben se l’odioso circo mediatico chiudesse subito lo show che le stanno creando intorno.
Ma torniamo a Salmin. La sua reazione ai commenti italiani alla liberazione di Silvia/Aisha è stata un sereno “Dio è grande. Sarà solo Lui a giudicarci”. Ma, mi son domandato, quanti fra quelli che da tutte le diverse posizioni politiche e religiose, scrivono su Silvia/Aisha, manipolano le sua vicenda e la sua persona, credono ancora al giudizio di Dio? Roba da medioevo.